sabato 28 maggio 2011

I Lontani Palazzi dell'Anima...

N.B.
Avviso ai naviganti: il racconto e’ abbastanza lungo, quindi prendetevi tempo se volete proprio leggerlo tutto…

Alcuni uomini considerano la sfida agli elementi come la piu’ grande delle prove: e’ un po’ come affrontare gli dei. Deve essere questo che porta gli scalatori ad arrampicarsi su montagne inaccessibili: la voglia di superarsi, ma credo anche il narcisistico piacere di essere il migliore, di sfidare gli elementi e di vincere. Non ho scalato l’Everest, nè sono sceso negli abissi, ma oggi sono salito al vulcano Karthala sentire il battito di madre terra…

Fenomeni fisici importanti, come tempeste o terremoti, sono sempre stati associati ad interventi divini. Uno degli dei piu’ importanti del Pantheon delle popolazioni polinesiane e’ Kana-Loa, mentre Efesto ed il suo alter ego Vulcano erano di casa nel Mediterraneo. Oggi salgo al vulcano per diversi motivi: non ne ho mai visto uno da vicino, ma soprattutto voglio mettere alla prova me stesso con un’escursione che si preannuncia come una delle piu’ dure che io abbia mai affrontato: 12 ore di cammino per 2000 metri di dislivello. Quando Ali, una delle guide, mi  ha detto che si puo’ fare in giornata, con un mezzo tono di sfida, ecco l’ancestrale lotta tra l’uomo e gli elementi che emerge ed io non posso che raccoglierla…

Preparo il mio zaino viola (sono quasi 20 anni che viene a spasso con me e non mi ha mai tradito) e devo farlo con cura: bisogna portarsi tutto, dato che non ci sono rifugi dove prendere dell’acqua o del cibo. Quindi almeno due maglie di ricambio, pantaloni lunghi, cerata per la pioggia ed un pile, visto che saliamo a 2400 metri e se arriva il freddo è meglio essere preparati. Pane, cioccolata spalmabile, biscotti e ovviamente acqua. Inizialmente pensavo di portarmene via 3 litri, ma pensando al percorso e alla latitudine (12 ore di cammino all’equatore)  ne prendo altri 2 per un totale di 5 litri, ovvero 5 kg,  fortuna che la mamma mi ha fatto bello grosso e non dovrei avvertire l’aggiunta di peso! Ultime cose da prendere sono un coltello multiuso, un coltello a serramanico, una fune (che non si sa mai, come insegna la mia baraka), la torcia da speleologo  macchina fotografica e GPS per l’altitudine. Sistemo il tutto nello zaino equilibrando il peso, saranno 15 chili, non proprio leggero, ma considero che lungo il percorso consumando cibo ed acqua il peso diminuira’ di oltre la meta’. Direi che posso andare a letto…

Suona la sveglia alle 03:30 e per svegliarmi non ho altro modo che gettarmi addosso un secchio di acqua fredda. Io e Artaji prendiamo una macchina che ci porta a M’Voni, il nostro villaggio di partenza, in leggero anticipo e qui ci attende la nostra guida, che si chiama Mombasa, come l’omonima citta’. All’inizio non lo vedo bene, dato che e’ vestito con abiti scuri, e’ ovviamente nero di carnagione e prima di partire ho un pensiero suggerito dalle mie tante letture fantasy: se stiamo andando al vulcano, ovvero il Monte Fato, e la mia guida potrebbe essere Frodo tanto e’ piccolo, io mi sento un po’ Aragorn, dato che il campeggio in Africa mi ha fornito qualche conoscenza da ranger (citazione da “Il Signore degli anelli”). Dopo questo pensiero ed i convenevoli di rito, si parte, torcia in testa accesa ed il GPS che segna le ore 4:30 e quota 386 metri.

Il sentiero, se cosi si puo’ chiamare, si snoda serpeggiante in mezzo alla giungla, una fitta ed inestricabile JUNGLA. Di notte tutti i boschi sono umidi di rugiada, ma qui ogni cespuglio attraversato o albero che ondeggia, ti fa cadere addosso un secchio d’acqua e dopo 10 minuti sono zuppo come se piovesse, anche se devo dire che e’ affascinante. Sono immerso in un groviglio di rami e foglie, si sentono alle volte i rumori di animali che si muovono, ma la luce e’ appena sufficiente per vedere per terra ed attorno a me c’e’ solo un muro verde. Mi sono chiesto se dietro di esso ci sia l’endemico giaguaro delle Comore (apparso nel mio terribile incubo di qualche settimana fa).



Dopo un’ora di cammino, ore 5:30, ci fermiamo per la prima sosta. Parlando con la guida scopro che ci sono 6 tappe a circa 300 metri di altitudine una dall’altra e adesso a quota 647 metri e’ il momento delle preghiere (Nota per i giocatori di ruolo: I musulmani fanno la prima preghiera del mattino un’ora prima del sorgere del sole, un po’ come tutti gli incantatori, che siano automaticamente chierici, maghi o druidi?).

Si riparte e arriviamo all’altra tappa con tempismo tedesco: ore 6:30 quota 936 metri. A quest’ora di solito il sole e’ gia’ alto, mentre adesso, dato che siamo sotto al vulcano, c’e’ luce, ma non si vede il sole e, sebbene ai tropici, a 1000 metri di altitudine e all’ombra non fa poi tanto caldo, perciò quando ripartiamo sono contento di ricominciare a sudare. Il paesaggio cambia e la foresta pluviale lascia spazio alla foresta temperata quando raggiungiamo la terza tappa, alle ore 8:30 a quota 1269 metri e qui noto l’assenza di conifere che tanto abbondano nei boschi di montagna alle mie latitudini. Un rumore mi scuote: dei muggiti. Qui dove la foresta e’ meno fitta si vedono sparuti gruppi di bovini con la gobba (che siano zebù?) e una casa circondata da un recinto. Chiedo a “Frodo”, la nostra guida, se quella sia una stalla. Mi guarda in modo strano e mi dice che quella e’ la casa del pastore, non degli animali. Da noi gli animali vengono rinchiusi in un recinto, mentre qui il pastore sta nel recinto e gli animali  vengono lasciati liberi…

Partiamo di nuovo, il percorso comincia a salire e si vedono i primi lastroni di pietra lavica che emergono dalla terra, testimoni di antiche eruzioni. La fatica comincia a farsi sentire assieme al peso dello zaino, sebbene quest’ultimo si alleggerisca ad ogni tappa. Sono gia’ quattro ore che camminiamo e quello che mi impressiona e’ la nostra guida: non ha una goccia di sudore e cammina in salita come se stesse passeggiando su un prato in pianura.

Alla quinta tappa appoggio lo zaino e mi siedo con gioia ed il GPS segna ore 9:30 e quota 1610. Manca ancora una tappa prima della vetta ed e’ in questo momento che spunta il sole da dietro il vulcano, che sembra ci guardi severo e la guida ci chiama per ricominciare a salire. Adesso il percorso si fa veramente duro e quando ci fermiamo all’ultima sosta a quota 1944 metri, getto letteralmente lo zaino a terra  e mi distendo sul prato a guardare le nuvole che corrono veloci sopra di me. Sono le 10:30, mancano poco meno di 400 metri e devo dire che ho odiato la guida quando ha pronunciato “narende” (“andiamo” in comoriano) per l’ultimo attacco alla vetta. Gli alberi sono del tutto scomparsi adesso e nei momenti in cui il vento cessa si sente il calore del sole e comincio ad essere davvero stanco, ma non posso fermarmi adesso e finalmente arriviamo alla vetta: quota 2328 metri alle 11:30 e tutta la fatica scompare quando di fronte a me vedo la caldera del vulcano…



Mano a mano che scendiamo ogni forma di vita sparisce, si apre una desolazione lunare di fronte a noi e la foresta appare morta: l’ultima eruzione del 2005 ha fossilizzato gli alberi, che ora sono tutti bianchi, testimoni perpetui della furia del vulcano. Poco dopo arriviamo alla bocca vera e propria: e’ un cratere in fondo al quale si vedono ammassi di lava solidificata dalle cui crepe fuoriesce qualche sbuffo di vapore.



Mi siedo sulla sabbia e la terra e’ calda, sembra quasi che pulsi. Mangiamo e ci riposiamo perche’ dobbiamo scendere, ma prima devo fare una cosa: pur non essendo un credente ho un rispetto quasi sacrale nei confronti della natura e i fenomeni naturali o i luoghi particolari suscitano in me un romantico sublime sgomento, perciò mentre fuoriesce un piccolo sbuffo di fumo mi inginocchio verso il centro del vulcano. Quando mi alzo Artadji mi chiede che cosa abbia fatto e gli rispondo “Ho reso omaggio a Madre Terra”…



Cominciamo la discesa quando sono le 13 e secondo la tabella di marcia dovremmo arrivare per le 18 circa. Il pensiero di fare altre 5 ore di quasi mi uccide, ma non posso certo prendere un elicottero! La discesa e’ comunque rapida, saltiamo almeno due tappe di sosta e dopo circa 2 ore non mi curo nemmeno più del paesaggio tanta e’ la stanchezza,  penso solo a scendere, come un automa, un passo dopo l’altro, cercando di arrivare alla meta il prima possibile. Ma alla mia Baraka questo non basta e quando arriviamo nella foresta pluviale comincia la pioggia; metto la cerata, che si rivela inutile perche’ in poco tempo sono completamente zuppo, anche se quasi non me ne accorgo: voglio solo arrivare alla meta. Finalmente, dopo una prima maledizione di Fata Morgana, arriviamo al villaggio di M’Voni poco prima delle 18. Mi trascino alla macchina e quando mi siedo le gambe mi tremano per la fatica, ma sono contento …

Sono nella mia stanza adesso e sono cosi’ stanco e cotto dal sole dell’equatore e dei 2000 metri di altitudine che ho i brividi di freddo. Il problema e’ che per lavarsi c’e’ solo acqua fredda, non c’e’ molta alternativa, perciò stringo i denti e non vi dico che goduria sentire il primo secchio di acqua fredda che mi scende lungo la schiena: praticamente una stilettata ghiacciata ad ogni vertebra. Mi consolo con una cena luculliana e quando torno la mia baraka si vuole ancora divertire con me. Arrivo alla residenza e trovo il portone chiuso, allora chiamo un amico di Artadji, perche’ lui ha il telefono rotto ed il ragazzo mi fa notare che c’e’ un modo per scavalcare il cancello , ma io non sono quasi in grado di camminare per il male alle gambe. Penso di andare a dormire in albergo per una sera, ma scopro che e’ l’unica volta che ho dimenticato il passaporto in camera. Comincio ad immaginare gia’ a come passerò la notte, quando la mia baraka decide che mi ha tormentato abbastanza e fa arrivare un altro inquilino che possiede il numero del guardiano e quando questo ci viene ad aprire resta sorpreso nel vedermi: pensava che dopo aver scalato il Karthala non avessi avuto le forze per andare a mangiare e che fossi crollato a letto: ma bussare alla porta per controllare era brutto?

Appoggio le mie cose e vado verso la terrazza. Osservo da qui sotto il vulcano illuminato dalle stelle e ripenso con un sorriso a quanto ho visto dalla cima: la distesa blu del mare mentre sentivo il respiro del vento che si infilava nelle gole della bocca del vulcano, dove ho colto, negli sbuffi ritmici di vapore, il battito della terra. Il ricordo di questa sensazione fa quasi ardere come fuoco il mio spirito e rivolgo lo sguardo verso casa, a nord ovest, dove vedo bianche nubi immense che sembrano palazzi… i lontani palazzi dell’anima…



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