La comunicazione tra gli animali avviene in due modi; usando il linguaggio del corpo, con posture e segnali ormonali o usando i suoni. L’uomo e’ un animale, anche se spesso se ne dimentica, e nel corso del tempo ha sviluppato forme di comunicazione verbale molto complesse, non abbandonando mai il linguaggio del corpo, retaggio indissolubile della nostra passata vita ferina.
A questa nostra meta’ oscura sono infatti associati tutti gli “istinti di base”, come mangiare, dormire, riprodursi, l’istinto a sopravvivere o la rabbia e sono retti dalla zona limbica mentre tutto il resto viene regolato negli emisferi cerebrali. E’ affascinante notare che ogni segnale che arriva dalla nostra parte animale sia quasi inarrestabile, nonostante milioni di anni di evoluzione. Se cosi’ non fosse non avremmo l’istinto a riprodurci e ci estingueremmo in breve tempo, ma questo puo’ anche generare, in alcuni soggetti, attacchi d’ira furiosa incontrollabili…
“In principio era il verbo”, recita il vangelo di Giovanni e, restando in campo biblico dopo la torre di Babele (“confusione”), l’uomo ha evoluto milioni di lingue che si sono succedute nel corso dei millenni. Ogni linguaggio ha poi dato vita a innumerevoli dialetti; essi sono una forma di comunicazione semplice ed immediata, alle volte con poca o nessuna sintassi, non come la lingua ufficiale dotata spesso di corposa grammatica con tanto di regole di costruzione delle frasi e via dicendo.
Il dialetto e’ il vero figlio della terra perche’ dice quello che deve senza giri di parole, con termini asciutti ed immediati; vi confesso che quando torno a Venezia non perdo occasione per parlare il mio caro, cantilenante dialetto veneziano. Il problema dei dialetti e’ che spesso sono poveri di termini e tendono a generalizzare. Ad esempio la pioggia in veneziano e’ “piova”, ma non definisce una sua quantita’. Mentre in italiano abbiamo pioggia, acquazzone, diluvio, in dialetto bisogna aggiungere delle parole rafforzative; se ad esempio si vuole dire un acquazzone di dice “piove a secci roversi”.
Dopo un po’ di tempo qui ho cominciato ad usare qualche frase in comoriano e ho notato una certa somiglianza con le forme dialettali. La lingua locale non ha termini precisi per ogni animale; mentre usciamo in barca ad esempio i cetacei vengono divisi in due grandi insiemi: “nduju” sono le balene senza una distinzione di specie; che siano capodogli, megattere, balenottere sono tutte “nduju”, mentre “fumbanduju” sono i delfini, indipendentemente dalla forma, che siano tursiopi, stenelle, grampi; comincio ad avere il sospetto che tutto quello che sia piu’ piccolo di “nduju” sia “fumbanduju”.
Artadji ieri mi ha chiesto se in italiano esistesse un termine per ogni cosa. Io ho detto che non ne sono sicuro, ma credo che avendo milioni di vocaboli (onore al vocabolario Devoto Oli) posso dirmi quasi certo della cosa. Lui rimase allibito da tale ricchezza, ma gli ho fatto notare che l’Europa, il vecchio mondo, ha una storia millenaria, che ha prodotto decine di culture, tradizioni e letterature diverse che nel tempo hanno evoluto linguaggi complessi fino a diventare le lingue moderne che conosciamo.
In Africa non c’e’ stata una crescita dello steso tipo per quello che riguarda il livello tecnologico, e questo forse e’ uno dei misteri dell’antropologia. Forse il clima difficile, non ha permesso la crescita di civilta’ stabili ma hanno dato vita a popolazioni nomadi che si spostavano in continuazione. Certo e’ che questo non ha formato una lingua scritta che si potesse evolvere, ma ha portato alla creazione di una forte tradizione orale che si perdera’ con la scomparsa del popolo che la pratica. Artadji poi mi fa notare che molti termini della loro vecchia lingua stanno scomparendo soppiantati da termini francesi o da abbreviazioni piu’ pratiche e veloci.
Dopo questa conversazione ho capito una volta di piu’ il valore del linguaggio, ma soprattutto della parola scritta e della grammatica (questo blog e’ pieno di strafalcioni grammaticali, ma sto migliorando, datemi tempo). Artadji mi ha detto che vorrebbe dare un nome comoriano a tutte le specie di cetacei: quanta passione c’e’ in questo ragazzo…
A questa nostra meta’ oscura sono infatti associati tutti gli “istinti di base”, come mangiare, dormire, riprodursi, l’istinto a sopravvivere o la rabbia e sono retti dalla zona limbica mentre tutto il resto viene regolato negli emisferi cerebrali. E’ affascinante notare che ogni segnale che arriva dalla nostra parte animale sia quasi inarrestabile, nonostante milioni di anni di evoluzione. Se cosi’ non fosse non avremmo l’istinto a riprodurci e ci estingueremmo in breve tempo, ma questo puo’ anche generare, in alcuni soggetti, attacchi d’ira furiosa incontrollabili…
“In principio era il verbo”, recita il vangelo di Giovanni e, restando in campo biblico dopo la torre di Babele (“confusione”), l’uomo ha evoluto milioni di lingue che si sono succedute nel corso dei millenni. Ogni linguaggio ha poi dato vita a innumerevoli dialetti; essi sono una forma di comunicazione semplice ed immediata, alle volte con poca o nessuna sintassi, non come la lingua ufficiale dotata spesso di corposa grammatica con tanto di regole di costruzione delle frasi e via dicendo.
Il dialetto e’ il vero figlio della terra perche’ dice quello che deve senza giri di parole, con termini asciutti ed immediati; vi confesso che quando torno a Venezia non perdo occasione per parlare il mio caro, cantilenante dialetto veneziano. Il problema dei dialetti e’ che spesso sono poveri di termini e tendono a generalizzare. Ad esempio la pioggia in veneziano e’ “piova”, ma non definisce una sua quantita’. Mentre in italiano abbiamo pioggia, acquazzone, diluvio, in dialetto bisogna aggiungere delle parole rafforzative; se ad esempio si vuole dire un acquazzone di dice “piove a secci roversi”.
Dopo un po’ di tempo qui ho cominciato ad usare qualche frase in comoriano e ho notato una certa somiglianza con le forme dialettali. La lingua locale non ha termini precisi per ogni animale; mentre usciamo in barca ad esempio i cetacei vengono divisi in due grandi insiemi: “nduju” sono le balene senza una distinzione di specie; che siano capodogli, megattere, balenottere sono tutte “nduju”, mentre “fumbanduju” sono i delfini, indipendentemente dalla forma, che siano tursiopi, stenelle, grampi; comincio ad avere il sospetto che tutto quello che sia piu’ piccolo di “nduju” sia “fumbanduju”.
Artadji ieri mi ha chiesto se in italiano esistesse un termine per ogni cosa. Io ho detto che non ne sono sicuro, ma credo che avendo milioni di vocaboli (onore al vocabolario Devoto Oli) posso dirmi quasi certo della cosa. Lui rimase allibito da tale ricchezza, ma gli ho fatto notare che l’Europa, il vecchio mondo, ha una storia millenaria, che ha prodotto decine di culture, tradizioni e letterature diverse che nel tempo hanno evoluto linguaggi complessi fino a diventare le lingue moderne che conosciamo.
In Africa non c’e’ stata una crescita dello steso tipo per quello che riguarda il livello tecnologico, e questo forse e’ uno dei misteri dell’antropologia. Forse il clima difficile, non ha permesso la crescita di civilta’ stabili ma hanno dato vita a popolazioni nomadi che si spostavano in continuazione. Certo e’ che questo non ha formato una lingua scritta che si potesse evolvere, ma ha portato alla creazione di una forte tradizione orale che si perdera’ con la scomparsa del popolo che la pratica. Artadji poi mi fa notare che molti termini della loro vecchia lingua stanno scomparendo soppiantati da termini francesi o da abbreviazioni piu’ pratiche e veloci.
Dopo questa conversazione ho capito una volta di piu’ il valore del linguaggio, ma soprattutto della parola scritta e della grammatica (questo blog e’ pieno di strafalcioni grammaticali, ma sto migliorando, datemi tempo). Artadji mi ha detto che vorrebbe dare un nome comoriano a tutte le specie di cetacei: quanta passione c’e’ in questo ragazzo…