Sono arrivato all’aeroporto con un buon anticipo; sbrigo le formalita’ dei bagagli e dopo il passaggio al metal detector mi sento praticamente a casa. Tutto pulito e asettico, mi siedo ad un internet point per aggiornare il blog quando ecco che sento una voce che prega il “passeggero Bonato Marco di presentarsi con urgenza al gate d’imbarco”. Immagino gia’ per cosa sia, ovvero i miei campioni di tessuto.
Quando arrivo al gate, sono un po’ agitato, e trovo anche un signore europeo, che poi si e’ rivelato essere un ricercatore svedese, che mi parla in perfetto inglese e mi chiede che cosa trasporto. Quando gli dico che trasporto 9 miseri strisci di pelle e dalle Comore mi sorride e mi dice “Tranquillo, non succederà niente, io porto una tartaruga intera, ma e’ sempre la stessa storia, se hai i documenti non andrà tutto bene”.
Poco dopo arriva una sorta di responsabile dell’aeroporto che controlla il mio permesso e appena legge che i campioni non provengono dal Madagascar mi rida’ il foglio dicendo “Questi campioni provengono dalle Comore, non e’ affare nostro, puo’ andare.”. Praticamente potevo avere anche una bomba batteriologica, ma dato che non e’ del Madagascar non e’ colpa sua. Io non mi faccio ripetere la frase due volte, sigillo tutto e m’imbarco sul mio aereo.
Quando vedo l’aereo sento una sensazione strana, credo sia mal d’Africa, ma e’ anche la certezza di tornare a casa. James Joyce scrisse una bellissima raccolta di racconti chiamata “Dubliners” (Gente di Dublino), in cui i protagonisti hanno una sorta di rapporto di amore ed odio verso la loro isola, l’Irlanda. Credo che chiunque nasca e viva in un’isola abbia questa sensazione, di voglia di ritornare a casa, ma di sentirsi anche come chiusi in una gabbia.
Non saprei bene come spiegarla, ma ogni volta che ritorno a Venezia e’ cosi’; parafrasando una canzone di Cristiano De Andre’, e’ il ritorno alla mia “terra ferita, che un po’ mi confonde…”
Quando arrivo al gate, sono un po’ agitato, e trovo anche un signore europeo, che poi si e’ rivelato essere un ricercatore svedese, che mi parla in perfetto inglese e mi chiede che cosa trasporto. Quando gli dico che trasporto 9 miseri strisci di pelle e dalle Comore mi sorride e mi dice “Tranquillo, non succederà niente, io porto una tartaruga intera, ma e’ sempre la stessa storia, se hai i documenti non andrà tutto bene”.
Poco dopo arriva una sorta di responsabile dell’aeroporto che controlla il mio permesso e appena legge che i campioni non provengono dal Madagascar mi rida’ il foglio dicendo “Questi campioni provengono dalle Comore, non e’ affare nostro, puo’ andare.”. Praticamente potevo avere anche una bomba batteriologica, ma dato che non e’ del Madagascar non e’ colpa sua. Io non mi faccio ripetere la frase due volte, sigillo tutto e m’imbarco sul mio aereo.
Quando vedo l’aereo sento una sensazione strana, credo sia mal d’Africa, ma e’ anche la certezza di tornare a casa. James Joyce scrisse una bellissima raccolta di racconti chiamata “Dubliners” (Gente di Dublino), in cui i protagonisti hanno una sorta di rapporto di amore ed odio verso la loro isola, l’Irlanda. Credo che chiunque nasca e viva in un’isola abbia questa sensazione, di voglia di ritornare a casa, ma di sentirsi anche come chiusi in una gabbia.
Non saprei bene come spiegarla, ma ogni volta che ritorno a Venezia e’ cosi’; parafrasando una canzone di Cristiano De Andre’, e’ il ritorno alla mia “terra ferita, che un po’ mi confonde…”